Fabio
Bianchi - Settembre 2011
L’ultima
produzione della pittrice Sandra Vukelic - nata a Belgrado nel 1973, dal 2002
residente a Piacenza - ci proietta in un universo magico dominato da un
antinaturalismo ed un antirealismo brillanti, giocosi, a tratti spregiudicati.
E qui è facile riconoscere l’ispirazione e la visionarietà dell’Est europeo per
quella tendenza a contraddire e rimettere in discussione stilemi ma anche
simboli poi reinterpretati con sensibilità moderna, mai però esasperata. Tutte
le sue recenti tele – sempre ad acrilico, vari formati - si ispirano ad
immagini quotidiane che, abbandonando lentamente l’oggettività, si smarcano
lanciandosi verso un mondo fantastico. Anzi ci introducono – oltre l’apparenza
e la normale percezione – in un universo cromaticamente vivacissimo, quasi
fossero i platonici “intermundia” dove tutto viene simpaticamente e
coraggiosamente stravolto in nome di un’unità spazio-temporale di certo non
occidentale, non cartesiana. Ogni aspetto infatti è potenzialmente trasfigurabile,
nelle sue abili mani anche aggeggi e strumenti di uso quotidiano come teiere,
tazze e caffettiere ma anche case, alberi e pesci diventano prototipi in breve
anche consolidati modelli - di un mondo diverso, il regno quasi di gnomi e
folletti. I quali ci sono, sempre invisibili, mai dispettosi, piuttosto
silenziosamente ci aiutano a traguardare una dimensione diversa, sconfinante
nell’onirico, tanto ludica quanto appariscente per la vivacità compositiva.
L’ammassarsi dei soggetti, la sovrapposizione dei riti, la leggerezza e la
leggiadria visiva ricordano a tratti certi film di Emir Kusturica che ha sempre
privilegiato l’invenzione spesso scoppiettante, l’andamento travolgente, lo
scollamento da meccanismi narrativi talora prevedibili. Tutti i dipinti di
Sandra sono un’esaltazione della cultura e delle tradizioni popolari tipiche
dei Balcani sempre protese non a delimitare, circoscrivere razionalmente, ma a
fondere in un magnetismo visivo, sovrapporre cose e concetti, cercare sempre
l’antidefinizione, l’opposto non per un pregiudizio teorico ma per istintive
necessità espressive. La sua produzione suggerisce e ineffabilmente riporta a
significati talora archetipici perché spesso rappresentare qualcosa significa
possederla, non certo materialmente ma solo cercando di evocarne l’aura,
esorcizzarne lo spirito. Sandra ci colpisce da un lato con la freschezza e la
spontaneità dei temi trattati, dall’altro con l’ordine e il disordine -
attentamente selezionati però - delle sue tele che sembrano vibrare di un tensione
intima, musicale, al ritmo di qualche ispirato jazzista. I suoi quadri sono
piccole suite, brevi composizioni modulate su una semplicità iconografica a
volte sorprendente ma in grado di proporsi come ben congegnato impianto per
tradurre un fremito interiore, cogliere una strana ma suggestiva empatia con la
natura sempre - in fondo - benigna. Forse c’è nostalgia nell’arte di Sandra, la
paura di diventare adulti, quindi il dichiarato bisogno di rituffarsi nella
fanciullezza, nell’ingenuità tipica dell’infanzia ma l’innata eleganza, il
senso della misura e il controllo dell’intuito svincolano la pittrice da
qualsiasi retaggio artistico, storico e psicologico configurando così un
approccio libero da condizionamenti memore de “L’âme slave” cantata da Boris
Vian.
Fabio
Bianchi
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